Tastiere e canto: incontro e scontro

In tutte le forme e in mille formati oggi disponibili – dal semplice clavicordo al sofisticato prodotto elettronico – la tastiera accompagna il canto nelle le sue manifestazioni: nell’apprendimento e nella ricreazione, nell’ampliare lo spettro timbrico e il volume e nell’accompagnare, sostenendolo, il canto liturgico. Dove si canta, risuona quasi sempre una tastiera o qualche altro strumento come, ad esempio, la chitarra.

            In queste manifestazioni è indubbio l’apporto positivo, il sostegno dato alla voce, la sicurezza fornita agli esecutori incerti. Non sempre, meglio, quasi mai ci si accorge che la presenza della tastiera, soprattutto nello spazio liturgico, è invasiva e condiziona fortemente il canto, in senso negativo. Lo si avverte, non tanto nelle esecuzioni polifoniche, quanto nelle proposte monodiche, le più semplici, ma anche le più vulnerabili.

            Due aspetti, in particolare, sono da tenere presenti per cercare di neutralizzare la forza ammaliante delle tastiere. Sintetizzo i due momenti con le espressioni a) il “tocco del pianista” e b) il “si del pianista”.

 

Il “tocco del pianista”: singoli cantori e interi cori hanno il brutto vizio di imitare il pianoforte. Il che avviene in modo automatico, senza volerlo. È uno stile esistenziale assorbito con l’aria che respiriamo. È un aspetto dello spirito del tempo che tutto pervade e, spesso, inquina e avvelena .

Come si sa, lo strumento non permette di intervenire sull’emissione del suono dopo che sia stato premuto il tasto. Una volta emesso un suono, il pianoforte, neppure il migliore, è in grado di aumentare o modificare il volume che ha un cammino obbligato: svanisce (diverso è il caso dell’organo…). In troppe esecuzioni gregoriane la prima nota di ogni gruppo neumatico riceve un impulso che la rende più “forte” rispetto alle sue compagne… di sventura, verrebbe da dire. Fenomeno evidentissimo nei neumi plurisonici, a cominciare dal pes e dalla clivis fino al pes subbipunctis etc. etc.

Una delle più affascinanti possibilità espressive della voce sta proprio nel fatto che l’intensità può essere modulata non solo su ampi segmenti cantati, ma anche, al limite, su un’unica nota (ad esempio, con un crescendo). Invece, a causa della mancanza di duttilità vocale, il canto stesso è mortificato e sfigurato. Come il pugno nello stomaco sferrato con le note finali roboanti; mentre di solito ogni conclusione nel canto gregoriano (inciso, frase, brano intero) richiede di ispirarsi alla coda di un topino. Le note – si sa, ma lo scordiamo in fretta – sono la materia necessaria per dare consistenza concreta alla musica, ma non sono affatto sufficienti. Ci vuole ben altro.

 

Il “si del pianista”: in quasi tutti i cori ci sono sfasature tra le voci, sfasature che non dipendono dalle differenze del timbro, bensì da una profonda disposizione interiore che regola il linguaggio musicale, la lingua madre di ciascuno. Mentre un neonato e, nei primi mesi di vita, una creatura si esprime con infinite modulazioni che spalancano orizzonti vocali e cantoriali inimmaginabili, man mano che cresciamo tutto questo mondo sonoro intristisce, si scolora, diviene sempre più limitato e grigio. L’uomo è condizionato e assimila abitudini improprie, percorrere cammini musicali estranei che fifiniscono per rivelarsi dei tragici vicoli ciechi.

In tante occasioni mi sono rivolto a qualche cantore dicendo “Si sente che sei un pianista”. “Chi l’ha detto?”. “Lei, me lo dice a ogni si. Non sente in che modo spaventoso cala?”. “Calo? Ma di quanto? Forse mezzo tono”. “No, bastano anche solo due decimi di tono per mandare tutto all’aria”.

            Non è solo questione del si sensibile, ma di tutti i suoni che non possono essere clonati sul modello della scala temperata o di altre serie e combinazioni paralizzate nella loro fissità. Il canto è libero di essere sé stesso, senza compressioni che lo snaturano e lo privano del suo colore legato alle frequenze variabili. Basta pensare a come sarebbe ridicolo sentire pronunciare in Italia le parole con una espressione fissa delle vocali, dalle Alpi alle coste di fronte alle Piramidi…

 

            Questi e altri difetti possono essere estirpati o resi meno invadenti a una condizione: con l’appropriarsi della libertà cantoriale che a ogni esecutore viene donata dal canto stesso. Soprattutto quando il canto è liturgico e si sottrae perciò alle leggi della musica perché è cittadino di un altro pianeta: l’universo della preghiera. Molte esecuzioni gregoriane risentono della vicinanza dell’obitorio. Tutto si muove su una fascia sonora fissa, tutto è eseguito o forte o mezzo forte, senza nessuna dinamica che riveli quanto il testo, prima di essere pronunciato, sia la forza che dal profondo anima e ravviva il cantore. Tutti i suoni, al contrario, scorrono come un elettrocardiogramma piatto, senza nessun segno di vita.

            Sarebbe opportuno, al riguardo, impegnarsi a cesellare le note per renderle sempre più aderenti alla Parola. Per “allenarsi” basterebbe soffermarsi sul repertorio dei responsori brevi delle ore diurne. Testi brevi e incisivi, melodie semplici e facili. Un tesoro da riscoprire e da vivere affinché l’annuncio nel canto sia quello che deve essere: non un’esibizione, non importa se affascinante o orribile, bensì una profezia. L’annuncio della Buona Novella.

                                                                                                                                

Bruder Jakob

Tag